Claudio De Bonis. I Carabinieri e la crisi armistiziale dell’8 settembre 1943

  

DIBATTITI

 I Carabinieri e la crisi armistiziale dell’8 settembre 1943

Claudio De Bonis[1]

Le prime bande di carabinieri resistenti si organizzarono spontaneamente attorno ad alcune figure di giovani ufficiali quali i capitani Carmelo Blundo 9 e Raffaele Aversa, che aveva preso parte all’arresto di Benito Mussolini agli ordini del tenente colonnello Giovanni Frignani altro protagonista di quelle ore. Il capitano Aversa così si esprimeva in quei tristi giorni: “… Siamo rimasti solo noi carabinieri a fronteggiare gli eccessi dei tedeschi ai danni della popolazione che abbiamo il dovere di proteggere anche se non ci sono stati impartiti precisi ordini …”. In queste poche parole e significative frasi risiede la forza, l’essenza, e lo spirito del valore militare e della fedeltà all’ideale supremo della tutela dell’essere umano da parte del Carabiniere. Il capitano Aversa, non si lamenta né si nasconde, come altri e con ben più gravose responsabilità fecero, per il fatto di non aver ricevuto ordini; il capitano Aversa conosce esattamente i propri doveri perché è la propria coscienza di uomo, di carabiniere e di soldato ad indicargli la strada da percorrere.

 

Ne è fermamente convinto al punto di aggiungere: “… se ritengono ciò che ho fatto un delitto, mi arrestino e mi uccidano pure, ma io solo non mi nascondo, ma debbo e voglio operare in uniforme …”.

Molti altri si comportarono come il capitano Aversa, a l t r i t r a d i r o n o p e r m e s c h i n i t à , c o d a r d i a e pusillanime convenienza, altri ancora come vedremo, furono ingannati da chi quel valore di fedeltà secolare non conosceva tanto da non meritare persino il rango di traditore che come la figura del Giuda cristiano ha pur sempre una sua dignità. 10 La vita terrena del capitano Aversa ebbe compimento con l’eccidio delle Fosse Ardeatine, inusitato epilogo di un’altrettanto inusitata azione di gruppi di resistenza clandestina che, bisogna ricordarlo, non ebbero la tempra del martire di Palidoro o quella dei martiri di Fiesole, tra i moltissimi e meno conosciuti, nel sacrificare la propria per salvare vite umane innocenti.

 

Il capitano Aversa venne insignito di medaglia d’oro al valor militare con una motivazione che di per sé stessa rappresenta la reale situazione nella quale prese corpo la resistenza dei militari dell’Arma in quel frangente e nel medesimo tempo un, forse involontario, j’accuse di chi al suo compito venne meno: “… Ufficiale dei CC.RR. Comandante di una compagnia della Capitale, opponeva dopo l’armistizio a l l ’ a z i o n e a p e r t a e d a l l e m e n e s u b d o l e dell’oppressore teso e del fascismo risorgente, il sistematico ostruzionismo proprio e dei propri dipendenti. Sfidava ancora i nazi-fascisti sottraendo i suoi uomini ad ignominiosa cattura. Riannodate le fila e raccolti numerosi sbandati dell’Arma ne indirizzava le energie alla lotta clandestina; cooperando con ardore, sprezzo di ogni rischio a forgiarne sempre più vasta e potente compagine … I suoi subordinati, animati dal suo nobile esempio e fedeli alla autorità legittima della Patria, bene operarono in ogni settore con sane iniziative, in armonia ed indirizzo preciso dato loro da un così eletto Capo. (Fronte Militare della Resistenza-Fosse Ardeatine- 8 settembre 1943-24 marzo 1944)

 

Il registro burocratico e asciutto del testo in questo caso consente di raggiungere immediatamente l’essenza dei fatti che occorsero in quel lasso di tempo tra l’armistizio 8 settembre 1943 e l’eccidio delle Fosse Ardeatine 24 marzo 1944. Il compendio delle gesta militari del capitano Aversa in poche frasi ci aprono ad un’analisi critica di quanto avvenne partendo da alcune considerazioni. Le mene subdole dell’oppressore tedesco e del risorgente fascismo, alle quali si oppose il capitano Aversa e i suoi consimili, altro non erano che la volontà di ridurre l’Arma tutta all’inazione e sostegno del popolo italiano che si voleva prono alle istanze dell’occupante emblematicamente rappresentate dalla costituzione della Repubblica Sociale e del governo del nord. NO, dissero i resistenti romani; No, dissero altri Carabinieri in tutto il territorio nazionale anche se in forma spesso meno organizzata di quanto fu possibile al generale Filippo Caruso ed ai suoi uomini. A cosa ci si riferiva con la frase: sfidava ancora i nazi-fascisti sottraendo i suoi uomini ad ignominiosa cattura?

 

Ad una delle pagine meno gloriose di cui furono responsabili uomini dell’Istituzione, ma che in ogni caso deve essere raccontata perché meglio risalti il coraggio di chi oppose un fermo diniego. I l 7 o t t o b r e 1 9 4 3 , s e c o n d o l a f r e d d a documentaristica, i Carabinieri romani -di fattovennero consegnati ai tedeschi dal generale di 12 Brigata Casimiro Delfini, per ordine del Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani ministro della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, e d’intesa con il comando tedesco in Roma. Esiste, inoltre, una relazione, suffragata dalle carte non più secretate degli archivi americani riguardante il traffico telegrafico del colonnello delle SS Herbert Kappler, tra l’ordine di arresto e di deportazione dei carabinieri della Capitale, il 7 ottobre, e l’esecuzione dell’ordine di Hitler di deportazione degli ebrei romani avvenuta il successivo 16 ottobre. Da questa documentazione emerge che il colonnello Kappler aveva preteso che prima di procedere alla deportazione degli ebrei romani bisognava neutralizzare la forza dell’Arma nella Capitale considerata da questi inaffidabile.

 

Il piano operativo era stato autorizzato dal Maresciallo Kesserling ed ordinato dal maresciallo Graziani in qualità di Ministro della Guerra; era stato predisposta la deportazione di 8.000 Carabinieri circa, ma come scriverà in una sua relazione a Berlino il colonnello Kappler, con una certa i r r i t a z i o n e : “ . . . p e r c o l p a d e l l ’ e r r a t a pianificazione di Graziani, solamente 2.500 furono i carabinieri arrestati, disarmati e deportati …”. Quest’ordine venne ritardato nell’esecuzione di qualche giorno, cosa affatto naturale data la provenienza, ed eseguito solo dopo la deportazione dei Carabinieri che con l’inganno vennero arrestati nelle caserme e quindi deportati in Polonia e Germania. Con ogni ragionevole probabilità tedeschi e fascisti non volevano i Carabinieri di mezzo allorché 13 si doveva procedere alla deportazione degli ebrei romani temendo una eventuale sollevazione di popolo. Nei fatti avvenne che con apposita circolare, datata 6 ottobre 1943, a firma del Maresciallo d’Italia Rodolfo Graziani, ministro per la difesa nazionale, questi ordinasse: “… in conseguenza delle dichiarazioni fattemi dal generale Delfini alla presenza del ministro dell’Interno eccellenza Buffarini e del segretario del partito fascista repubblicano eccellenza Pavolini sulla inefficienza numerica morale e combattiva dell’Arma dei CC.RR. in Roma, ordino che tutti i carabinieri reali siano disarmati, le stazioni carabinieri a cura della P.A.I. (Polizia dell’Africa italiana) che sostituirà i carabinieri nei rispettivi servizi, i reparti accasermati a cura del generale Delfini che mi risponde personalmente della esecuzione integrale … gli ufficiali resteranno nei rispettivi alloggiamenti sotto pena in caso di disobbedienza, di esecuzione sommaria e di arresto delle rispettive famiglie …”. Quanto vile e priva di dignità militare, nella forma e nella sostanza, sia questa circolare, e di conseguenza chi se ne assunse la responsabilità, si evidenzia nel ricatto morale che coinvolgeva le famiglie dei militari di grado superiore costretti ad agire sotto pressione psicologica; ricatto più vergognoso non si poteva individuare.

 

Nelle rispettive dichiarazioni postume i generali Delfini e Graziani hanno sostenuto di aver agito in buona fede e si sono giustificati asserendo di essere stati tratti in inganno da tedeschi e fascisti in quanto ritenevano che i Carabinieri, una volta 14 arrestati e disarmati, sarebbero stati trasferiti al nord. Ad ogni modo, fedeli al nostro intento di rifuggire giudizi sul comportamento dei singoli, fatto sta che in questo clima vennero arrestati, nelle rispettive caserme, circa 2.500 carabinieri di vario grado che subirono la deportazione nei campi d’internamento nazisti agendo vigliaccamente senza dare loro alcun conto, da parte della scala gerarchica con vari livelli di responsabilità, di quanto andava accadendo.

 

 

Ma ancora una volta è proprio dalla lettura dell’asettico lessico ministeriale che ricaviamo i maggiori indizi sul comportamento, in particolare dei carabinieri romani: “… inefficienza numerica morale e c o m b a t t i v a d e l l ’ A r m a d e i C C . R R . i n R o m a , ordino …”. E’ così che i nazi-fascisti esprimono ed evidenziano il rancore verso un’istituzione che non è piegata e che, nell’interesse collettivo, ha agito nel suo complesso a tutela della Patria e della popolazione quando la situazione contingente si faceva per essa estremamente pericolosa. L’arresto dei Carabinieri in servizio nella Capitale venne eseguito in ottemperanza alle disposizioni impartite dal generale Delfini, che firmava, in assenza del comandante generale dell’Arma, con una lettera datata 6 ottobre 1943 avente per oggetto:

 

Disarmo dei Carabinieri della Città aperta di Roma. “… in conformità dei tassativi ordini di S.E. Il Maresciallo d’Italia Ministro della Difesa Nazionale, Rodolfo Graziani, e di seguito agli accordi presi con 15 le autorità germaniche interessate, dispongo quanto segue …”. Prosegue la circolare al punto (a): “… alle ore 8,15 di domani 7 corrente tutti i militari in forza e presenti presso tutte le caserme e stazioni della città aperta di Roma dovranno essere disarmati …”. Al punto (c) 2° continua: “… alle ore 5 del mattino del 7 andante, 10 ufficiali, a cura della Legione di Roma, si troveranno pronti per uscire nella caserma Podgora. Saranno ivi rilevati alla predetta ora da automobili della P.A.I. e condotti al “Ponte Milvio” ove si troverà una autocolonna di 30 autocarri tedeschi. Con tali mezzi e sotto la diretta responsabilità di ufficiali della P.A.I. Stessa i 10 ufficiali in parola dovranno eseguire il rilievo presso le stazioni dell’Arma della Città aperta di Roma di tutti i militari ivi tempestivamente raccolti a cura dei comandanti di gruppo interessati, per a c c o m p a g n a r l i n e l l e s e g u e n t i c a s e r m e p i ù prossime …”.

 

E ancora al punto (c): “… Si precisa che all’esterno delle caserme ove saranno raccolti i nostri militari e di fronte alle singole uscite saranno posti alle ore 8,15 di guardia, a cura delle a u t o r i t à g e r m a n i c h e , s p e c i a l i r e p a r t i d i paracadutisti tedeschi che hanno l’ordine di far fuoco contro chiunque tentasse di evadere …”. Nel verbo evadere è individuabile e riassumibile il senso dell’intera operazione contro i carabinieri di Roma Città aperta e le responsabilità dei singoli. Deportato con il vile inganno il gran numero dei Carabinieri chi resta a difendere la popolazione romana nel periodo della Città Aperta? I Carabinieri 16 del generale Caruso organizzati militarmente che devono, oltre che con i tedeschi e i fascisti, rapportarsi anche con le organizzazioni di resistenza connotate politicamente che, sebbene coagulate nel Comitato di Liberazione Nazionale, sin da subito iniziano ad agire nel proprio rispettivo interesse preparando il ruolo che avrebbero voluto assumerne nel dopoguerra.

 

A i C a r a b i n i e r i d e l l ’ o r g a n i z z a z i o n e m i l i t a r e clandestina di resistenza spetta anche il gravoso compito di far comprendere a tutte le parti in causa che essi non agivano per conto di alcuno in particolare ma esclusivamente in ragione del bene supremo della Patria. Fu lo stesso Caruso che stabilì per le formazioni dei suoi carabinieri la norma di apoliticità assoluta. Presupposto essenziale, questo, per svolgere il proprio compito al di sopra delle fazioni in un teatro operativo come quello di Roma Città aperta.

 

Le formazioni preesistenti, quelle dei capitani Aversa e Blundo vennero organicamente inquadrate nella nuova struttura unitaria pensata dal generale Caruso. Essa si articolava su di una struttura centrale di coordinamento, il Nucleo di Stato Maggiore, un ufficiale di collegamento con il Comitato di Liberazione Nazionale e due differenti raggruppamenti, uno territoriale, costituito in genere da personale sbandato delle stazioni della Capitale a cui facevano riferimento circa 2.850 uomini con a capo il tenente colonnello Giovanni Frignani e con vice comandante il capitano Aversa, ed un secondo mobile con circa 2.900 uomini di organico 17 al comando del tenente colonnello Bruto Bixio Bersanetti. Ogni riflessione sugli organici, nel numero e nel livello, è superflua. Ben presto iniziano le delazioni e quindi gli arresti mirati che si sommavano ad operazioni di contrasto delle forze nazi-fasciste.

 

Molti Carabinieri e civili che prestarono loro supporto finiranno nelle tristemente note celle dello stabile di via Tasso, adibito a prigione dai tedeschi, e di Regina Coeli da cui in molti, martirizzati, non fecero più ritorno. Tra questi il tenente colonnello Frignani, profondo conoscitore dell’ambiente romano; il tenente colonnello Talamo, catturato sin dal 2 ottobre, che avrebbe potuto apportare la sua esperienza e competenza di capocentro del S.I.M. Servizio d’informazione Militare in Roma; il maggiore De Carolis ed il capitano Aversa troveranno la morte nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ma con loro molti furono i sottufficiali e i carabinieri che subirono la medesima sorte.

 

Alla fine anche il generale Filippo Caruso venne tradito ed arrestato; condotto in cella, la nr. 16, dello stabile di via Tasso subì il consolidato trattamento riservato agli internati della struttura; fu più fortunato di altri e sopravvisse per t e s t i m o n i a r e q u a n t o a c c a d d e i n q u e i g i o r n i consegnando una ricostruzione nitida dei fatti, delle persone, dei comportamenti e dei luoghi che contribuirono a determinare il quadro d’insieme di quei mesi tremendi. 18 La memoria È più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella di chi si è conosciuto. Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica. W. Benjamin Onorare la memoria dei senza nome è cosa ardua, onorare la memoria dei moltissimi dei quali, invece, conosciamo i nomi, ma che non hanno ancora trovata degna menzione storica, è cosa possibile. Lo è ma senz’altro non nello spazio ridotto di questo scritto; ne risulterebbe un’ulteriore compressione del significato profondo delle scelte di migliaia carabinieri in quei tristi giorni. Come anteposto, l’interesse di questo scritto e delle riflessioni connesse ai fatti narrati, sebbene solamente accennati, è totalmente rivolto alla comprensione dei moti profondi dell’animo di quei Carabinieri che dicendo NO, indipendentemente dalla circostanze, dal sud al nord del Paese hanno sancito e rivendicato con il sangue la propria singola e corale devozione alle persone, come sudditi del re prima o cittadini della Repubblica poi; e lo hanno fatto al di sopra delle fazioni del momento ponendosi in tal modo fuori dalla contingenza storica pur operando attivamente in essa. Studi segnalano che i valori interiorizzati dei carabinieri afferiscono alla Tradizione e allo Spirito; la prima frutto delle norme morali tramandate dal Regolamento Generale dell’Arma, il secondo, derivante dalla gendarmeria napoleonica 1805 19 e dal Regno d’Italia del 1821, permeati degli ideali della Rivoluzione francese.

 

A noi appare del tutto evidente che i Carabinieri sono, sempre, comunque e innanzi tutto, debitori per la formazione della propria intima natura unicamente al costante rapporto che nei secoli hanno avuto con le persone in ragione della prossimità con le genti di campagna e cittadine. E’ esclusivamente questo connubio simbiotico che ha formato, e continua nella quotidianità, a formare il Carabiniere.

[1] Dottore, Docente del Master di 1° Livello in Terrorismo ed Antiterrorismo Internazionale, Universita UNICUSANO Telematica Roma.