10 febbraio: Il Giorno del Ricordo

  

“Ora non sarà più consentito alla Storia di smarrire l’altra metà della Memoria. I nostri deportati, infoibati, fucilati, annegati o lasciati morire di stenti e malattie nei campi di concentramento jugoslavi, non sono più morti di serie B.” (Annamaria Muiesan – Testimonianza)

 Una delle tante pagine non scritte della nostra storia recente è l’Esodo di 350 mila fiumani, istriani e dalmati che, dal 1945, si riversarono in Italia con tutti i mezzi possibili: vecchi piroscafi, macchine sgangherate, treni di fortuna, carri agricoli, barche, a nuoto e a piedi. Una fuga per restare italiani, un vero Esodo biblico, affrontato con determinazione, verso un’Italia sconfitta e semidistrutta, quale reazione al violento tentativo di naturalizzazione voluta nella primavera del 1945, dalla ferocia dei partigiani slavi.

“Non è certo il caso di restare a Pola -leggiamo nel verbale del Comitato di Liberazione Nazionale di Pola del 27 dicembre 1946 – per fare da cavie, sacrificandosi per fare opera di italianità, come qualcuno ha detto a Roma. Nella Capitale non si ha un’idea di cosa succede in Istria. Il pericolo è grande di fronte all’inerzia del governo. La popolazione di Pola è angosciata e domanda se potrà salvarsi”. Improvvisamente l’Istria, Fiume e la Dalmazia furono oscurate dall’ombra livida di un destino incerto e rosso di sangue innocente.

La gente era bloccata dalla paura dei rastrellamenti improvvisi, delle delazioni, delle vendette e delle notizie di infoibamenti, di affogamenti e di fucilazioni che la giustizia sommaria di sedicenti tribunali del popolo irrogava a chi era colpevole di essere italiano. Le città cominciarono a svuotarsi. Da Fiume fuggirono 54 mila su 60 mila abitanti, da Pola 32 mila, da Zara 20 mila su 21 mila, da Capodistria 14 mila su 15 mila.

Soltanto l’Esodo degli abitanti di Pola si svolse sotto la protezione inglese con navi italiane. Tutti gli altri istriani, fiumani e dalmati dovettero abbandonare le loro case e i loro averi sotto il controllo poliziesco dei partigiani slavi. Coloro che ottenevano il visto per la partenza potevano portare in Italia solo 5 kg di indumenti e 5 mila lire. Dopo lunghe settimane di attesa e dopo implacabili controlli, si poteva salire su un convoglio diretto al confine, cioè verso la libertà. Il viaggio era breve, ma diventava lungo per le continue verifiche dell’OZNA (la famigerata polizia segreta) che aveva occhi e orecchi, fino a Trieste.

“Nessuno – ha scritto Amleto Ballerini – era mai certo di arrivare alla meta. C’era sempre qualche infelice, ad ogni viaggio, che doveva scendere senza fiatare con tutti i suoi miseri bagagli, stretto da due agenti, e gli altri, muti, stavano là a guardarlo dai finestrini del treno mentre s’allontanava, curvo come Cristo sotto il peso della croce”. A moltissimi il visto venne negato per ragioni politiche, per vendetta, per odio, per non privarsi di personale specializzato, ma soprattutto perché ogni partenza era la conferma di una condanna per il nuovo regime. Ebbero inizio le fughe drammatiche, di giorno e di notte, fra le doline del Carso, attraverso passaggi clandestini noti solo ai contrabbandieri, fughe verso la libertà che spesso si concludevano con una raffica di mitra, con lo scoppio di una mina o sul filo spinato.

Alcuni affrontarono l’Adriatico con fragili barche a remi e raggiunsero le coste italiane stremati dalla fatica e dalla sete, con le mani spellate e sanguinanti. Spesso però l’approdo rimase un sogno: catturati dalle motovedette slave, furono condannati a lunghi anni di lavoro forzato. Talvolta la spiaggia romagnola e marchigiana restituiva le salme dei fuggiaschi travolti da un’improvvisa bufera.

L’esule prima saluta i suoi morti nel cimitero, poi raccoglie povere cose in una grossa valigia. Con le lagrime scruta le cose più care, i ricordi di ieri, quelli del tempo felice. Poi addio alla casa, alla terra lavorata fino al giorno prima. In silenzio verso l’ignoto, mentre la stampa slava sghignazza: “I fascisti scappano come ladri di galline”. L’Esodo, la disperazione, è stata ignorata dai nostri governanti.

All’inizio degli anni ’50 De Gasperi e Scelba suggerirono la dispersione degli esuli, perché i giuliani apparivano “nazionalisti pericolosi”. Furono attrezzati alla meglio (o alla peggio) 109 campi profughi. Gli squallidi androni furono divisi in piccoli box: fra tubature arrugginite e sgocciolanti, fra correnti d’aria, odori di fornelli e puzzo di gabinetti, con la biancheria posta ad asciugare in baracche piantate nel fango e in quelle flagellate dalla bora sul Carso, gli esuli hanno vissuto per anni, con la fierezza di coloro che hanno fatto una scelta irreversibile, quella di vivere da italiani in Italia. Di essere liberi in Patria.

L’Esodo è la ribellione contro le foibe, i saccheggi, l’imposizione di una lingua straniera, delle scritte provocatorie e delle stele rosse affisse in ogni luogo. L’Esodo è stato un dramma di 350 mila persone che hanno abbandonato case ed averi pur di restare italiani e che in Italia hanno continuato e continuano a soffrire per l’indifferenza e l’ignoranza di una politica miope, pavida e vile.

 

QUALCHE CIFRA

Città

abitanti

profughi

Lussingrande

1.992

1.500

Cherso

7.570

6.000

Fiume

60.000

54.000

Capodistria

15.000

14.000

Cittanova

2.515

2.025

Rovigno

10.020

8.000

Zara

20.055

18.000

Lussinpiccolo

6.856

5.850

Pola

34.000

32.000

Con la firma a Parigi del Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 l’Italia cede alla Jugoslavia 7.700 chilometri quadrati con Pola, Fiume e Zara. Su 502.124 abitanti, 350.000 italiani (300.000 secondo Tito) vengono profughi in Italia. Vengono insultati dai comunisti ad Ancona, Bologna, Venezia e Milano.

Ottantamila fuggono nelle Americhe e in Australia, centomila vengono accolti nella Regione Friuli – Venezia Giulia, gli altri vengono ricoverati nelle baracche di 109 campi profughi, dal Carso alla Sicilia.

(Estratto da “Il rumore del silenzio: la storia dimenticata dell’Adriatico Orientale”, a cura della Lega Nazionale – Trieste, della Presidenza della Provincia di Roma, della Fondazione “Ugo Spirito”, 2001.)